UN MEDICO PITTORE

SERGIO LUPPICHINI

VERNACOLO

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Chi è che non si è messo a scrivere o ha provato a scrivere poesie? Già sui banchi delle scuole elementari, e peggio ancora alle scuole superiori. Alcuno ha imperterrito continuato all’università, e peggio ancora da adulto nei momenti di tregua dell’affannosa corsa della vita professionale. Hai detto di tutto, dalle cose più banali fino ai sentimenti remoti che a volte neppure uno psicanalista riesce a far affiorare.
Se qualcheduno ha letto quei “versi sciolti”, confesso la colpa di esserne l’autore, dove si esternano i miei sentimenti più reconditi e le mie aspirazioni morali, e si accinge a leggere “impressioni e ricordi di un Pisano” che è una raccolta di "bozzetti" in stretto vernacolo Pisano, penserà che o sono ammattito oppure é cambiata la mia personalità: niente di tutto questo, sono sempre il solito ma ho scritto queste cose amene in particolari piacevoli stati d'animo o ricordi. In seguito mi sono fatto prendere la mano ed ho cominciato ad esternare i fatti accaduti nella mia infanzia mentre scrivevo un libercolo (Bé mì tempi), sui ricordi di fatti irripetibili accaduti nell’età più bella, quella dai quattro anni fino ai dieci. Mi restava più semplice, con pochi versi riuscive a sintetizzare pensieri che avrei dovuto esprimere con molte più parole e frasi. Questi ricordi coinvolgevano essenzialmente la figura del nonno Guglielmo e tutte quelle cose che ho visto fare, data la mia innata curiosità del voler sapere il più possibile ed il tentare di imitare, dai vari artigiani che abbondavano, a quei tempi, nel mio paese. Gli scritti che ho rammentate sono inediti, solo pochi li conoscono, ma non riesco a convincermi a pubblicarli.
Amo molto la natura e sono colpito da quei momenti particolari, quei suoni, quelle situazioni che durano poco, quegli sprazzi di luce che ravvivano i meravigliosi colori che ci circondano e che scompaiono all'improvviso senza più avere l'opportunità di rivederli. Gli impressionisti francesi riuscivano a dipingere alcuni paesaggi solo ad una determinata ora del giorno perché solo allora c'era quella particolare luce che li ispirava. Ho cercato invano di imitarli, ma sono avvivato ad una brutta copia dei macchiaioli Livornesi Nello stesso modo sono affascinato dalle scene di vita quotidiana e dalle azioni degli uomini: bozzetti caratteristici che si notavano spesso ai tempi della mia gioventù, nei paesini di periferia, pennellate di colore della vita di campagna allietata da un fraseggio colorito e vivo com’è il vernacolo. Da questi spassosi episodi in chiave ironica sono passato ad episodi tristi, che denunciano la cattiveria e l’incomprensione, quella cattiveria che è innata nell’uomo eche non può essere stemperata neppure con dei pensieri espressi in vernacolo. Questo è definito come parlata dialettale di un luogo o di una regione tipica delle classi popolari con particolare riferimento a quelle Toscane e dell’Italia centrale, come recita il Grande Dizionario Della Lingua Italiana della UTET, che deriva forse dal termine Vernacolare che designava la parlata volgare in quanto contrapposta al latino, credo sia l’espressione genuina della personalità della gente del popolo, della gente umile, dei contadini, dei paesani in genere che hanno nel loro DNA quella verve che deriva dallo spirito dissacratore ed anticonformista che distingue il Toscano in genere (Vedi Maledetti Toscani di Malaparte).
Il mio è un Vernacolo, che oso definire con la V maiuscola (scusate la modestia); non un linguaggio troppo raffinato dei cittadini, dove ci si accontenta di elidere delle consonanti e di esaltare la C aspirata. Parlo di un dialetto, o vernacolo, della piana di Pisa, della campagna con regole e delle sfumature che sembrano incredibili ai puristi ma che hanno un valore umanistico in quanto vengono adoperate parole che non trovi nel vocabolario, ma che se le analizzi vi trovi un etimo di derivazione latina, del latino maccheronico, del volgare dei poeti toscani. Sento il dovere di dire che il vernacolo che diciamo Pisano, in effetti è un Vernacolo Pisano Livornese. É ricco di una terminologia colorita e può sembrate offensiva della moralità, ma che trova il suo valore nella spontaneità popolare del gergo del popolo. Inoltre ha la peculiarità di vocaboli particolari: questo diviene “Vesto”, il si trasforma in “Er” per rafforzare maggiormente la parola, gli accenti si spostano, cambiano i costrutti sintattici. Cercherò di farmi capire con alcuni dei tanti esempi possibili: una donna in attesa di un figlio era definita in maniera diversa secondo lo stato sociale; una contadina maritata era "gravida", una di paese era "incinta", la moglie del padrone era "in stato interessante", una ragazza che non avesse il fidanzato era "pregna" detto in tono dispregiativo, paragonandola ad una "vacca" (che sarebbe la mucca). Oppure quello che oggi chiamiamo "bagno" era a seconda dei casi "il gabinetto" per la casa del paese, "il logo comodo" o genericamente " il logo" se trattatasi di case coloniche, addirittura lo stanzino, quando il bagno era una specie di capanna staccata dalla casa con un buco in terra al posto del water, "il cesso" per uno che volesse parlare "di spizzico" cioè con ricercatezza. Questo “distingui” è la caratteristica principale di chi parla ed ama il vernacolo, infatti esalta maggiormente quello spirito del "maledetto toscano", quello spirito che riesce sempre a far emergere il lato comico anche nelle situazioni più tragiche ed imbarazzanti. Poi vi sono termini che non vengono usati nel vernacolo classico, ma che sono l’essenza di questo idioma vernacolistico tipo sciaghettato ecc.....
In ottemperanza a tali principi ho cercato di buttare giù alcuni bozzetti di vita provinciale raccontando cose vere con parole genuine che, anche se possono sembrare sconce, sono parole che oserei definire tribali.
A volte vengo preso da certi ricordi struggenti che mi fanno rivedere determinate persone e impressioni come fossero delle allucinazioni: mi senti stringere il cuore al ricordo della giovane età, di quel mondo meraviglioso lindo e semplice, di quando il sesso era sporco ed il mare pulito: da questi ricordi permeati di una certa tristezza e di un senso di angoscia per la ineluttabile irripetibilità: però c’è un attimo in cui si affaccia quello spunto comico che é la molla che fa scattare l’essenza e la particolarità del ricordo stesso.
L'intento del mio impegno é quello di suscitare, raccontando qualche ameno fatterello o esternando ricordi che sembrano sepolti ma pronti ad affacciarsi alla memoria, un attimo di sollievo ed un sorriso in questo mondo fatto di fretta e tristezza, dove nessuno riesce più a cantare sul lavoro o prendere con filosofia ciò che accade e purtroppo doveva accadere. A volte invece, preso dallo sconforto su quanto sia ingiusto il mondo mi lascio andare ad un sentimentalismo che non è proprio del vero vernacolista Pisano _ Livornese.
Prendetemi per quello che sono, non ho mai preteso di essere un poeta e tanto meno un esperto di vernacolo.

IL TORO E IL PAPPAGALLO

 

 

Un toro, se n'iva qua e là a casaccio,

Vando ti sborniò ‘n certo pappagallo

Appollaiato sur sù trespolaccio

Che gl'era tutto rosso e poi anco giallo.

 

Provò a passanni lì davanti a quello;

Sentì dì "MAH!"con tono assai conciso

:-Vai e dice a me!:- ni frulla 'n der cervello:

Si ferma, te lo sbornia e poi deciso

 

:-Io so’ robusto bello e preputente

E poi se vengo 'lì e ti dò un cazzotto

Certo ti fò venì la permanente:

Che cìai da dì! specie di passerotto!:-

 

Lui s'arruffa tutto, pè que' rimbrotto;

:-MAH! sai, c'é 'na 'osa che a me ‘un mi torna,

Con tutta vella robba ‘e  cìai lì sotto

Com'é che porti stè popò di 'orna?:-

 

 

 

IL GALEOTTO

 

 

C'é 'n galeotto che ti stà drentro a vita

E a vorte pensa a quando stava fòri:

Là c'é 'n topo, lo piglia tra le dita

Lo guarda, e drento ni venghino ‘alori.

 

:-Te che stai fòra ti potrei anch' ammazzà

Tant'ormai e nun mi possin più fà gniente,

Giacchè vì drentro ci devo stramazzà.

Ma però 'un voglio mia èsse incremente,

 

Vell'artri boia mi dènno 'sta 'ondanna

P'avé ammazzato un gran ber delinguente

C'un dì m'avea rubbata la mì donna:

Pè loro ver motivo 'un vars’a gniente:

 

Tò prendi 'sto ber bacio, tira a campà:

Però da te, 'sto gran piacé ti 'iedo,

A mamma tua ne lo devi rizompà

Glé da vent'anni e più, che nun la vedo.

 

IN DISCOTEA

 

Ovvai!, cercamo un pò d'essè più seri:

Hanno 'r coraggio di 'hiamalli balli ?

Ti stamburan d'assordà què beceri

Poi fan certe mosse, ‘e mi sembrin grulli:

 

Lui a ballà sta quì e lei gl'é dimort'in là

Colle mane in sù e le gambe a dimenà;

Quella luce a balenà di vì e di là

Farebbe venì l'aonco anco a sù mà

 

Voi mette un tango! velo 'ollo struscio!

E son tre passi sulla mattonella,

E agguantato strinto coll'occhio moscio

La senti dimenà nella gonnella.

 

Oggi 'un lo sanno più cosé l'ardore;

'Un'hanno mià bisogno d'una tresca!

Né 'un fanno mia per sarvà l'onore:
A me mi sa, che gl'é verdura fresca.

 

SAN RANIERI

 

Ver giorno gl'ero lì d’in sù lungarni

Che mi passin davanti dè bestioni

Ch’ar sù ònfronto noi ci parèmo scarni

E che ti fan sentì ar pari dè òglioni.

 

Ti ciavevino ‘ferri e le celate,

‘n sulle spalle reggevin’i targoni:

Sembravin tutti pronti à dà legnate

Pè fà sonà 'r tamburo in sù gropponi.

 

In coda ti passò poi gente ganza

Mascherata cò panni di vè tempi;

Le donne ‘ndavin come pè ‘na danza

E l’armi gl’eran tutte di vè tempi.

 

'Na festa di bandiere e gagliardetti:

Le spinte e l’urli da restacci scemi,

E c'era delle mente anco 'banchetti.

 

In Arno si vedevin qué barconi

Impegnati a fà alle òrse a son di remi

E tutti vanti a urlà come coglioni:

 

Ti vogavin di più che le galèe.

Chi vince, poi, ti piglerà dè premi:

C’era tutto…….mancavino le cèe.

LA REGATA DI ‘ARCINAIA

 

Da quand’è ‘r mondo, Carcinaia voga!

Ni sembrin d’essè ganzi a dà di remi,

Paian dè professori colla toga

Mentre l’antri han da passà da scemi.

 

Ma tutti vèlli ‘n su le ripe d’Arno

Ti voglin provà a danni ‘na cenciata

E vand’è la fiera, ‘na vorta l’anno

Si dàn da fa pè fatti ‘na regata.

 

Ma prima d’essé pronti ‘n sur traguardo

Ci vonno l’urli e anco dù sagrati:

Poi via!, cò remi ‘n mano e ‘r far gagliardo

Dalla fatia ti sembrin sfigurati.

 

:-Vai! Voga Menneo che la gatta affoga:-

‘R vogatore s’acchina e dà ‘no strappo

Si gira e poi dice a tutta foga

:-Sìe! Ma che vòi vogà! M’han bell’é chiappo!:-.

 

:-’Voga ‘Ndindo:- erin l’urli più sentiti:

I gelati sparivin come ‘r pane,

E le nozze e torroni cò ‘anditi.

 

Ner mentre ‘n aria sentivi le ‘ampane

Un’urlo :-carcinaiolo arrenditi !:-

E dalla voga :- no! vò morì cane:-.

 

'R TRAMME

 

 

Ma te n'arriòrdi vando c'era 'r tramme !

Se n'iva dritto dritto in su' binari

E di 'iasso ne faceva un bariamme

Coll'asta della luce in su' filari.

 

Dar di retro ci stav’ un controllore

Che pè montàcci vòle un ber cinquino;

In sur davanti zitto e ritto a ore

C'er’ un’ a manovrà cor'un mandrino,

 

Colla mana a tirà 'na funicella

Pè fa' scansa' la gente dalle verghe.

Statt’attennto ar sòno della àmpanella,

Si nun ti scanzi, patte ‘n delle doghe.

 

C'é l'atobusse c'ha preso le ònsegne;

I fili colle verghe l’àn levate:

'Un ni poi più dì alle ragazze pregne
'Volevi 'r tramme ? e ora ci montate!

 

‘R  SABATO SANTO

 

Beppe! T’arriòrdi di vand’a mezzogiorno

Si scioglevin le ‘ampane ar campanile?

‘Un sentivi artro ‘e doppi tutt’intorno

Assieme ‘a botti e a corpi di fucile.

 

Perché ci fuss’intorno più buriana,

D’accordo tutti vanti noi ‘ompagni,

Pè fa casino più della ‘ampana,

Si fevin tante botte cò ‘arcagni.

 

Lo zorfo lo mestavi alla potassa

E messo lì con su ‘na pietra pari

Ni davi, manco fusse ‘na grancassa,

cor piede ‘n corpo. Peggio delli spari!

 

Allora le mammine, bòne velle!

Chiappavin’i bimbetti sott’i bracci

E a buò punzone, credi a me son belle!

Li strasciàn pè terra òme fussen stracci

 

Pé fanni traversà tutte le strade:

Dice ‘e poi ni porti bene, poérini!

Le malattie e ni verran più rade

E zeppe avran le tasche di vàini.

 

Tutti vanti di siùro fanno festa,

‘r contadino, ‘r barbiere e ‘r falegname:

e le massaie cianno ‘n della testa

Che cosa possin còce ‘n der tegame.

 

R papero di mi mà, gl’era scontato

Sentì sòna e ni venne l’aria mesta.

Arzò la testa e fè ‘na sculettata:

Vai! Stasera, è a me che fan la festa.

 

 

POPINO

 

Vand'a Giugno dar càrdo eri balordo

E gl’eri mèzzo da tanto ‘e sudavi,

doppo cena la lucciola ìappavi

Che poi 'n der bicchiere ti càava ‘n sordo:

 

Lì ‘n della pista stavi a fà 'n casino

E da lontano, là dalla Fornace

Senti 'no scampanio un pò vivace

E tutti a urlà :-correte! eh c'é Popino:-.

 

Er carretto 'olle rote, fatto a barca,

Colle bue tappate lì da dù 'operchi

Cor manio tondo e 'ntorno tutti i cerchi

E la 'ampana pé fà venì la 'arca.

 

Ti ciaveva 'e ‘oni, e anco velli piatti,

‘N delle bùe ci tuffava la paletta,

E ti serviva allegro e senza fretta

Poi ti dava i gelati bell'e fatti.

 

Ti scordavi 'r pallone, 'r carrettino,

Anco li sdruccioloni 'in sulla pista:

D'intorno ‘r gelataio c'era gran festa!

C'avevi 'n della mana ver ventino

 

Che trovavi 'n der bicchier'ar mattino;

Che ci speravi prima d'in dà a letto!

'Un sento più ver sòno der carretto;

Ma sento solo dì ;-Addio Popino:-.

 

A 'ndà a comprà 'r gelato dà tristezza,

'Un provi più vuer vecchio bon sapore,

Nemmanco senti più ver bell'odore:

Ni manca 'r gusto della giovinezza.

 

 

LA SORA CROTIRDE

 

 

'N der mi paese ci stava 'na signora

Più larga 'e lunga, e poi si dava un'aria!

C'er'in piazzetta la sù gran dimora:

Gl'era Sora Crotirde! 'un ti dìo che boria!

 

Cor mì nonno oh 'un ce l'aveva a morte

Perché da lui 'un gl'era mai ossequiata?

Lei cià letiàto tante mai di vorte

Perché cercava desser'insurtata:

 

Ci tentava pè potello denucià,

Però lui più furbo 'un ci àscava;

Ma la frustata ne la voleva dà,

La girava e 'r pretesto 'un ne lo dava.

 

"Te vòi è t'offenda a datti der budello

Ma 'r cervello Iddio 'un me l'ha negato:

Arriordati però, e quì stà 'r bello,

Tè 'na gran buccia sei di mallegato "

 

 

RUFFO

 

 

Vigliacchi! l'ammazzonno 'olla purpetta.

Pòro 'r mi Ruffo! gl'era 'n gran ber cane

'Un gl'era avido, ni bastava 'r pane

E lo pigliava dalla mì furchetta:

 

S'ero stracco ni 'ndavo 'n sur groppone

E mi portava 'n giro 'n der mì orto

Poi giù, faceva finta d'essè morto!

E alla gola mi veniva un gran maone.

 

Se di volata ti portava 'n sasso

Lo pigliavi e lontano lo tiravi

A riportallo gl'era tra 'più bravi

Po'iva a cuccia e stava bòno e basso:

 

S'un lo notavi e 'r sasso 'un lo tiravi

Cò denti ti strappava 'pantaloni:

Però alla gente ni giravino 'oglioni

E se rompeva, te li ripagavi.

 

Ar mi nonno a pagà ni venn'annoia,

Un'attecchiva a ricucì 'vestiti

Che Ruffo cò sù denti l'ha sgruciti.

Lui fù chiaro: deve finì sta storia!

 

Di vì la brutta e trista decisione:

Pòro Ruffo, òlla gente 'un ci pò più stà

'n c'é cristi, lo devono ammazzà:

Io ci piansi pè la disperazione.

 

 

SARTO E BARBIERE

 

 

Se vòi àpì 'r ber tipo der mì nonno

E ciò da raccontatti un fattarello

Pè dimostrà ch'un ni prendeva 'r sonno:

Gl'era pronto di lingua e di cervello.

 

Davanti alla Piazzetta a Fornacette

Proprio alla fermata der trammino

Ar numero di centoventisette

Lì accanto ar barre di Beppino,

 

C'aveva un fondo senza gran pretese

Che ni ne serviva come sartoria,

Ma pè le feste un c'erano sorprese

Di botto lui lo àmbiava 'n barberia;

 

E s'uno 'n sur trammino e ni diceva

"Oh dù mestieri!" veniva la buriana:

"Uno meno di tu mà" e rispondeva

"Io 'un l'ho mai fatta la puttana".