"BE' MI' TEMPI "
ricordi di un passato che non torna
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Molto spesso sono assalito da ricordi del
passato, dal rimpianto di ciò che fu. Un giorno che mi trovavo,
dopo tantissimi anni, al mio paese nativo, osservando le case da me
ben conosciute, parcheggiai davanti al CRAL, costruito dov’era la
casa dove sono nato e cresciuto e distrutta dalla guerra: rividi i
vecchi compagni di giochi, le lunghe, così mi sembrava, passeggiate
che facevo lungo il marciapiedi per andare dalla casa alla fontana
pubblica all’angolo della casa del Bucchianeri. Scesi e volli
rifare quel percorso. Con mia grande sorpresa dopo pochi passi mi
ritrovai davanti alla fontana: era sta sostituita, non c’era più
quella di ghisa con il beccuccio a forma di leone, ma una scipita
fonte in muratura. Capii che tutto ciò che credevo allora più
grande era dovuto alla mia piccola statura di allora. Tutto era
ingigantito, come erano ingigantiti i ricordi: allora chiusi gli
occhi e ritornai al passato, alle vecchie usanze,
alle vecchie botteghe artigianali, ai negozi oscuri dove
andavo a comperare di trafugo il semi salati. Rividi momento per
momento il lavoro che faceva il nonno, le operazioni dei falegnami
da cui nascevano come miracolo dei magnifici mobili, il mastro
carradore con la sua ascia, il maniscalco mentre ferrava i cavalli,
i grossi navicelli nel Fosso carichi di laterizi da portare al porto
di Livorno, la strada ancora sterrata percorsa da barrocci
stracarichi e tante avventure e giochi avute con i miei compagni di
allora. Ho avuto come una vertigine a questi ricordi: il rimpianto
mi ha fatto venire un groppo in gola. In quel momento decisi di
mettere nero su bianco tutto quello che potevo ricordare e lo ho
intitolato “Bè mì tempi”.
Ne
riporto alcuni brani e se avete la voglia di leggerli, scusatemi per
l’entusiasmo infantile che vi trovate.
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Una delle
tante caratteristiche di nonno Guglielmo |
Bé
mì tempi!: anche per nonno ho dei bei ricordi.
Era un uomo voglioso di comunicare agli altri ciò che sapeva in
modo che anche loro avessero un po’ di cultura: ricordo le serate
d’inverno a “veglia” attorno al fuoco scoppiettante del “camino”,
assieme ai suoi amici, mentre le donne arrostivano le castagne o
facevano i “necci” con le piastre calde al punto giusto, con “le
monachine che corrono”, per versarci l’impasto e unirle
mettendole sulla fiamma per cuocere i castagnaccini: per azzittire
noi bambini riempivano di farina dolce i ditali da cucire e li
facevano cuocere nella brusta. In questo clima di sereno
raccoglimento, sfoggiava la sua conoscenza e leggeva, con relativo
commento, i testi classici dell’Ariosto o del Tasso, senza contare
i canti della Divina Commedia, specie dell’Inferno. E sceglieva le
stanze giuste dell’Orlando Furioso o della Gerusalemme Liberata
per dare un filo logico e continuo delle particolari vicende
narrate. La difficoltà di questo lo scoprii più tardi quando
dovetti studiare al Liceo tali testi. E che dire degli struggenti
episodi tratti dall’inferno? Vedi Paolo e Francesca ed il più
apprezzato, la vicenda del conte Ugolino?: tali storie non finivano
quella sera, ma c’era il continuo alla sera successiva: per chi
non conosceva il fatto c’era la fantasia che lo portava a
fantasticarci sopra dando i propri finali. Le telenovele ed i
serial non sono un’invenzione dei nostri tempi, già allora
venivano usate nelle fredde serate invernali: nei periodi estivi
invece erano i cantastorie, aiutati da cartelloni illustrati, a
romanzare i fatti di cronaca nera del momento: con una differenza,
alla televisione sei solo tu con lo schermo che ti domina, mentre
allora il fatto avvinceva un gruppo di persone attente e
partecipanti con domande e commenti al punto di falsare la vera
storia per dargli un qualche cosa di personale frutto di un volo di
fantasia. Bé mì tempi! Allora l’uomo aveva uno spirito umano e
viveva con l’uomo e per l’uomo ed aveva delle opinioni proprie e
non suggerite mai mass media ed aveva il coraggio di esternarle
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Quello che accadeva il Sabato Santo |
Bè
mì tempi a Pasqua! Il Giovedì Santo si “legavano le campane” e
dal campanile non veniva il loro suono ad annunciare il mezzogiorno,
l’Avemaria o l’inizio delle funzioni ecc. Il parroco allora
sguinzagliava noi ragazzi con la “raganella” per avvisare i
fedeli. La raganella era un marchingegno formato da una scatola di
legno che faceva da contenitore e cassa armonica; dentro una lamina
elastica a contatto con una ruota dentata su di un asse al cui
esterno c’era una specie di manovella: tenevamo il manico e
facevamo girare la scatola, la ruota dentata faceva scattare la
lamina che vibrava facendo un rumore sgradevole e gracchiante come
le rane. Il Venerdì santo era dedicato al Sacro Sepolcro: l’altare
della cappella laterale, con sopra il Crocifisso nascosto da un
panno viola, veniva letteralmente sepolto da una montagna di piante
in vaso: ciò che dominavano erano le calle che Olimpia aveva curato
per tutto l’anno: non devo dimenticare le “vecce”, piante di graminacee
fatte crescere in ambiente privo di luce; erano di un
colore bianco latte che a contrasto del verde delle altre piante
davano una sensazione di meraviglia che ti commuoveva. Alle dodici
precise il parroco apriva le porte della chiesa ed era un viavai di
persone per pregare davanti alla tomba del Cristo: tutte le mamme
conducevano i figli, più o meno grandi, vestiti con gli abiti
migliori. Al pomeriggio, con tutti gli amici in allegra compagnia,
andavi a visitare le “Sette Chiese”: era un pellegrinaggio alle
chiese dei paesi viciniori e non mancavano le critiche nel giudicare
quale fosse il miglior Sepolcro. Il Sabato Santo, alle dodici
precise si “scioglievano le campane” ed iniziava un “doppio”
festoso e prolungato accompagnato dagli spari dei cacciatori che
scaricavano le loro doppiette perché portava fortuna per la caccia
futura ed i botti fatti da noi ragazzi con le pasticche di
potassa e zolfo. Le giovavi madri facevano attraversare la strada ai
piccoli figli, perché portava bene ed avrebbero imparato presto a
camminare e sarebbero cresciuti robusti e forti: era uno spettacolo
di gioia. Ho accennato ai botti che facevamo noi ragazzi più o meno
grandi: si usavano le pasticche di clorato di potassio,
tremendamente amare, adoperate per alleviare il dolore che
accompagna le tonsilliti e le faringiti. Venivano vendute alla
rivendita di tabacchi, a Fornacette dalle “Fabbrini”, ma non a
noi ragazzi, quindi eravamo obbligati a trafugarle ai nostri
genitori; per lo zolfo ci pensava Piero del Dell’Unto, che lo
prendeva dal “cigliere”, veniva adoperato per disinfettare le
viti, della sua casa
colonica. Si triturava finemente la potassa, si mescolava con lo
zolfo, si metteva su di una pietra levigata e sopra si posava una
“ciastrella” di marmo: col calcagno gli davamo un forte colpo
facendo scivolare leggermente il piede ed il risultato era un forte
botto: lo spostamento ti faceva restare il piede intorpidito per
parecchio tempo (credetemi che non è semplice né facile e comporta
un certo pericolo). L’intensità del botto dipendeva dalla
quantità della polvere; una volta mescolammo dieci pasticche e
tanto zolfo, trovammo una grossa piastrella da mettervi sopra e vi
gettammo su un grosso masso dall’alto di una colonna lì vicino:
fu una botta grossissima e la pietra andò in mille pezzi.
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La
trebbiatura |
Che
festa! Nell’aia della casa colonica veniva piazzato il trattore,
il “Bubba” a testa calda che per farlo partire dovevi
riscaldarne la testata del motore, una prominenza sferoidale, con
una fiaccola a petrolio: ad una certa distanza la trebbiatrice,
unita da una cinghia alla ruota motrice del trattore disposta
lateralmente: dietro la trebbiatrice una lunga scala, su cui
scorreva una cinghia dentata per trasportare la paglia. Le manne del
grano, giacenti nei campi, venivano caricate sui carri agricoli
trainati da mucche legate al giogo fermato al timone, e trasportate
sull’aia di fianco alla trebbiatrice dove si fermava il carro: il
contadino, in piedi sul carico, con una lunga forca infilava e
porgeva le singole manne ad un compagno, accovacciato sulla
trebbiatrice vicino alla “tramoggia”, che provvedeva ad
infilarle dentro dalla parte delle spighe: queste venivano prese
dagli ingranaggi e ben sbattute; da una parte sortiva il grano, e da
un’altra bocchetta la
“pula”, il guscio del grano: dal di dietro usciva la paglia che,
agganciata dalla scala mobile, veniva trasportata e lasciata cadere
attorno ad un palo impiantato a terra, “lo stollo”: con le
forche veniva ben aggiustata a formare il “pagliaio”, una grossa
cupola di paglia che durante l’anno sarebbe servita per formare il
letto della stalla dove venivano tenute le mucche sia per latte che
per lavoro. Sento ancora i canti, le grida di incitamento, l’allegra
agitazione, il rumore del trattore, il viavai dei carri, le voci
degli addetti alle “bocchette”, da cui usciva il grano raccolto
nei sacchi, che ne annunciavano la quantità misurato in “staia”,
e la polvere della pula che sapeva di terra e frumento. Tutti i
contadini della zona erano clienti di nonno, sia come barbiere che
come sarto, per questo mi invitavano volentieri, anche perché ero
ubbidiente e rispettoso. Per mio desiderio mi tenevano sul carro, e
avevo imparato a guidare le vacche: mi sembrava di essere una
persona importante e che senza di me non avrebbero potuto trebbiare.
Bè mi tempi! Proprio: ricordo i sapori genuini; appena arrivati la
massaia ci accoglieva per una colazione a base di buon pane
casalingo fresco con una fetta spessa di “carnesecca” o
pancetta. Tenevo il “tocco” di pane con la sinistra, sopra ci
posavo la carnesecca e col coltello nella destra, tagliavo sia la
carne che un pezzetto di pane: mettevi il tutto in bocca con grande
soddisfazione, e masticando, parlavo con i braccianti che mi
chiedevano cosa facevo, della scuola, dei miei genitori: che
orgoglio! Mi sembrava di essere importante: sarà stata la fame, la
novità, l’aria pura della campagna, l’età, ma da allora tale
appagamento non lo ho più provato.
A pranzo cominciavi con la zuppa di pane col cavolo alla toscana,
baccalà o stoccafisso in umido, pane croccante, buon vino fatto dal
contadino, e la frutta appena colta dagli alberi nei campi. A cena
immancabilmente c’era il “papero” in umido, con abbondante
salsa dove intingevi i bocconi del pane: dopo prosciutto, fatto in
casa con maiali allevati dal contadino con avanzi di casa, tagliato
a fette spesse, come diceva mio padre, “col falcino”. Durante il
pasto era un continuo incrociarsi di domande e risposte fra i
contadini, si aggiornavano sull’andamento dei raccolti, del
mercato delle bestie, le previsioni del futuro e l’augurio di una
stagione propizia.
Oggi
quando vedo nei campi quelle enormi mietitrebbiatrici che fanno
tutto in una sola operazione escludendo il fattore uomo, vengo preso
dalla nostalgia e penso a quanto abbiano perso i giovani di oggi, in
esperienza, appagamento, gratificazione e rapporti umani ed è
allora che mi sfugge spontaneamente un -: Bè mi tempi!-
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Come si
divertivano i "grandi" |
Gli
adulti avevano si i loro problemi, anche gravi, ma riuscivano
nonostante tutto a distrarsi; ricordo le interminabili partire a
carte, briscola, scopa, tressette, quadrigliati che facevano gli
adulti al bar nel tempo libero, da “Gigino” o da “Beppino”,
dove andavo io, dato che era il bar frequentato da mio nonno e mio
padre: loro giocavano raramente, ma io stavo incantato a vedere
giocare gli altri per imparare ed emulare, e dopo aver capito il
procedimento cercavo di intuire gli errori dei vari giocatori. Era l’usanza
“giocare il Fiasco”: c’era in palio un fiasco da due litri del
buon vino rosso del Chianti, genuino, diceva Beppino, anche se io ho
sempre avuto dei dubbi in proposito dato che il suddetto Beppino era
chiamato comunemente “Tagliavini”. Se lo scolavano lentamente in
sei giocatori, tre coppie, due giocavano e una “riposava” in
attesa di sostituire la coppia vincente della partita in atto: il
gioco si protraeva per ore, dall’immediato dopopranzo fino all’ora
di cena, alternando la briscola, alle prime due vittorie, con scopa
a nove punti. Quando arrivavano in fondo non è che vi fossero dei
vincitori in assoluti, ed il fiasco veniva pagato grossomodo da
tutti quanti. Ad altri tavoli c’era chi giocava a tressette con l’accuso,
secondo me il gioco più bello, o a quadrigliati con la “chiamata”
di un tre, in genere, e la possibilità di “puntare” le carte
per indicare allo sconosciuto compagno occasionale i giochi che
aveva in mano: i “busso”, “striscio”, “busso e striscio”,
“striscio fino al busso” erano le parole più comuni: dopo lo
“sfoglio” le recriminazioni -:cor ventotto terzo devevi puntà l’asso
mia buassà di tre! Ma chi t’ha ‘nsegnato a gioà, popò di
brodo!:-. -: meglio te che m’ài bussato sur regio vinto! Hai ma
andà gioà alle figurine cò bimbetti:- Il divertimento avveniva
proprio con questi battibecchi. Sono giochi belli ed impegnativi,
magari grossolani, ma veramente maschi, non come i giochi da salotto
praticati nei ceti più alti. Quando giocava mio nonno, un mezzo
bicchiere di buon vino ci scappava anche per me. Mio padre quando lo
sapeva brontolava, ma nonno Guglielmo era possibilista, diceva che
un po’ di vino buono faceva bene anche “a bimbetti”. Fra tutti
i giocatori vi erano i più bravi e anche i più fortunati: il Nini,
il Bimbone, il Martinelli, Uccio ecc. A questo proposito, il
Martinelli che era strabico, continuamente stuzzicava Uccio a
proposito della sua notoria tirchieria. Una volta il Martinelli:-
quando tù mà fa la fanfara (spezzatino di lesso con le patate in
umido), pè trovà ‘n pezzetto di cicciati ti ci vòle ‘r cane
da caccia!-: disse ad Uccio :-
E a te a vedè mangià ‘r pane ‘n mano all’artri, ti c’è
venuto l’occhio torto:- fu la pronta risposta. Era un continuo di
tali battute tra un bicchiere e l’altro, e nessuno si offendeva,
anzi ci ridevano: e così passavano la domenica.
Dietro
Beppino c’era il pallottolaio ricavato sul terrapieno e ricoperto
da un pergolato di glicine: era qui che d’estate giocavano a “Bocce”.
Interessante era assistere alle sfide tra il Nini ed il Bimbone!
Prima di tirare la boccia dichiaravano se andare ai punti o
bocciare, indicando dove si sarebbero fermate le singole bocce: è
una cosa veramente difficile ma nel 95% dei casi le previsioni erano
esatte: su questo particolare fra gli spettatori fioccavano
scommesse in denaro, anche forti (Ho visto scommettere cento lire, a
quei tempi era una cifra, tra uno di Pisa ed un cascinese). Il gioco
era bello ed interessante e noi bambini eravamo sempre attorno,
magari dando noia agli adulti i quali ci spedivano a son di
scappellotti, ma noi imperterriti ritornavamo alla carica.
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L'utilità
del Fosso Emissario |
Il
fosso era molto utile per Fornacette: era una importante via di
trasporto idrica che univa la zona del pontaderese al porto di
Livorno. Vi navigavano i “navicelli”, grosse chiatte prive di
motore che venivano caricate con materiali laterizi prodotti dalle
fornaci della zona ed il vino infiascato proveniente dalle colline
di Pontedera; oltre a questo portavano qualsiasi altro materiale,
dai manufatti ai rottami metallici per le acciaierie di Piombino. A
Fornacette c’era il porto dove scaricavano e caricavano la merce
trasportata con i barrocci trainati dai cavalli: erano molti i
barrocciai del posto i quali tenevano moltissimo alle loro bestie e
le nutrivano, oltre che con semola ed avena, contenuta in un sacco
di iuta legato alla testa in cui era tuffato il muso del cavallo,
con erba fresca e gramigna. Di qui la necessità delle “erbaiole”
che andavano a raccogliere erba in “piaggia” o nella vicina “curigliana”
con o senza il permesso dei contadini: però oltre a fare un
interesse proprio, erano utili alla campagna perché tenevano pulite
le fosse di scarico e durante le piogge l’acqua poteva scorrere
liberamente; avevano il brutto vizio di “cogliere” anche l’erba
medica dagli erbai dei contadini, e per questo molte volte le
scacciavano malamente. Era venuta una industria redditizia ed ho
conosciuto famiglie che vivevano con questo reddito.
I
navicelli non avevano motore o vele, ma navigavano trainati da funi
tirate lungo i lati del fosso, le banchine, da uomini robusti che a
piedi arrivavano fino a Livorno e viceversa: si diceva “tirare ad
ARSAIO”. Quando si fermavano per riposare o mangiare o dormire,
salivano sul navicello dove a poppa c’era una piccola tettoia
attrezzata come una piccola casa: certo il mangiare era semplice, il
piatto più comune erano fagioli lessati ed insaporiti versati su
delle fette di pane abbrustolite e condite con oli di oliva: era
piatto unico veramente squisito che anche oggi non disdegno di
mangiare ed era detto “zuppa di fagioli alla navicellaia”,
oppure condivano la pasta cotta e scolata con un sugo fatto di cime
di rape sbollentate con aglio, olio, peperoncino e filetti di aringa
triturati finemente: mi viene l’acquolina in bocca al solo
rammentarlo!
Il
fosso era fonte di guadagno anche per la pesca: vi si trovavano “retoni”
di pescatori professionisti che andavano a vendere il frutto della
pesca per le vie del paese. Ricordo una reina pescata da Begnamino e
rivenduta a pezzi, di circa 15 chili.
Sulle
banchine del fosso c’erano le “pile”, lavatoi pubblici per
poter lavare i panni nelle limpide acque. Era il regno delle
lavandaie a pagamento: però erano molte le donne di famiglia che le
praticavano per uso personale: mi sembra di vederle ora con i piedi
nella vasca ad insaponare, sciacquare e sbattere i panni sul
lavatoio in cemento: a volte cantavano ma per lo più sentivi un
cicaleccio continuo frutto dei pettegolezzi che si raccontavano a
vicenda: se parlavano di un uomo od una donna alla fine risultavano
lavati puliti risciacquati e rovesciati più dei panni che avevano
alle mani: la loro vita privata non era più un segreto. I
pettegolezzi e la maldicenza erano all’ordine del giorno peggio
dei giornali, radio e televisione di oggi. Da qui le notizie
volavano e quando sentivi qualche notizia piccante :- ma chi te lo ha
detto?:- la risposta :- lo dicevano alle pile”.
Si.
Bè mi tempi. L’estate si inoltrava, la scuola era finita, la
piaggia e la curigliana erano una distesa di oro striato dal verde
dei filari di viti: la calda monotonia del giallo era interrotta
dalle rosse macchie dei papaveri. Era bello inoltrarsi tra le bionde
spighe, cogliere i papaveri dai lunghi steli: giocare a nascondino e
vagare con la fantasia immaginando di essere nel cuore della giungla
che ti aveva descritto magistralmente il Salgari nei romanzi
avventurosi di pirati ed avventurieri, che leggevi di nascosto
invece di fare la lezione.
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Il
Trammino detto Strasciapoveri |
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La neve veniva spalata solo davanti alle case, e quando gelava, la
strada diveniva una lastra scivolosa su cui facevamo il pattinaggio
con le scarpe: per noi era anche uno spasso vedere cavalli che
scivolavano causa gli zoccoli di ferro, ed il trammino con le ruote
motrici che scivolavano sulle verghe ghiacciate nonostante la sabbia
spruzzata sui binari: si, c’era la ferrovia a scartamento ridotto,
la STEFET, con delle macchine a vapore che trainavano alcuni vagoni
colorati di rosso e bianco: era il servizio Pisa Pontedera, detto
“strasciapoveri”, che serviva tutto il piano di Pisa con una
miriade di fermate. Il “Trammino” aveva delle vaporiere con nomi
altisonanti: io ricordo la “Cammilla dell’Ante” la “Galilei”e
la “Fibonacci” ecc. Poi arrivarono delle motrici elettriche ad
accumulatori. Sembravano la macchina di “Nonna Papera”, la
cabina di guida centrale e da ambedue le parti una specie di cassone
dove erano alloggiati gli accumulatori: subito dopo vennero le “Littorine”,
automotrici a “canfino”, in italiano nafta, che servivano sia
come motrice e vagone viaggiante. Si chiamava “littorina”
perché sul copriradiatore spiccava un enorme fascio littorio: erano
molto veloci e occorrevano dei manovratori abili; il più conosciuto
era il Caponi che viaggiava sempre in coppia con “Mode”, il
controllore; personaggi che hanno scritto la storia di questo mezzo
di trasporto popolare.
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Le Ciliege
di Go' |
Nella
bottega di barbiere vi bazzicavano i tipi più strani; vi potevi
trovare non solo i clienti, ma anche gli amici e gli sfaccendati che
andavano a chiedere consigli a Guglielmo e passare un’ora nelle
varie discussioni sui fatti del momento. Ricordo in particolare due
di questi tizi: Gò, un tipo estroverso, ottimo lavoratore, ma non
gli dispiaceva lo scherzo e data la penuria di quattrini, non
disdegnava saccheggiare gli alberi da frutto di proprietà altrui.
Poi il Goghe ( non ricordo i veri nomi, li ho conosciuti col loro
soprannome): un tipo taciturno, che come segno di riconoscimento
portava l’orecchino al
lobo destro. Si vociferava che fosse stato marinaio e avesse fatto
del bene con azioni poco pulite: si era ritirato nella campagna
attorno a Fornacette in un piccolo appezzamento di terra che
coltivava ad ortaggi e frutta: fin da quando era entrato in bottega
si lamentava con mio nonno e con gli altri clienti che durante la
notte un mascalzone gli aveva “scaricato” tutti i frutti dal
ciliegio marchiano che aveva dietro casa e che era un suo vanto e l’invidia
degli altri -: Se lo trovo ni stacco ‘r collo, ni stacco! ve lo
dice ‘r Goghe-: gridava.
Quando
fu il suo turno si mise sulla poltrona con il lungo accappatoio
bianco fermato attorno al collo e allentato dal dito del Goghe
perché troppo stretto, colla mano destra sorreggeva la
caratteristica bacinella da barbiere, fatta a scodella, con una
larga incisione ad arco lungo il bordo in modo da combaciare
perfettamente tra il mento ed il pomo d’Adamo, contenente l’acqua
in cui il barbiere intingeva il pennello per insaponare la faccia ed
avere una rasatura morbida. (Questa bacinella è resa famosa dalla
letteratura in quanto fu adottata come elmo da Don Chisciotte della
Mancia).
Mio
nonno, con larghe falcate del braccio insaponava sapientemente e nel
contempo spiegava al Goghe e agli altri clienti in attesa seduti
sulle comode poltrone di pelle nera, e fra questi c’era Gò, che
il movimento del sole attorno alla terra era solo apparente ma in
realtà era la terra che vi girava attorno e spiegava come gli
effetti sulla terra fossero i soliti. Ad un certo punto Gò esplose
:- ‘un’ è vero niente! È tutta ‘na bugia! Ver che racconti
son barzellette, e se ci ‘redi vor dì ch’un capisci nulla. Io
lo so di siùro!:- Nonno cercò di spiegarsi meglio e per dare
maggior forza alle parole gesticolava col pennello carico di
schiuma, smettendo di insaponare: Gò continuava a fare cenni di
diniego: anche gli altri avevano capito e davano ragione a mio
nonno. Allora Gò si alzò e tutto pieno di susseguo :- Se tanto
tanto fusse vero che gl’è la terra a girà, varche vorta ‘r
ciliegio der Goghe verrebbe a casa mia e ‘un lo dovrei ’ndà a
cercà io-: Il Goghe schizzò su in aria come un fulmine, buttò di
qui a là la bacinella bagnando tutto mio nonno, per scagliarsi su
Gò che nel frattempo di corsa aveva guadagnato la porta scappando
fuori seguito da un Goghe infuriato ed urlante che con quell’accappatoio
lungo e bianco che gli scendeva dal collo ondeggiante dal vento per
la corsa, la faccia insaponata, l’espressione stravolta ed
infuriata, sembrava un fantasma inferocito che inseguiva un’anima
dannata. Fu una scena indimenticabile! Tutti fuori bottega a
gridare, incitare e ridere. Bé
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