UN MEDICO PITTORE

SERGIO LUPPICHINI

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"BE' MI' TEMPI "
ricordi di un passato che non torna

Molto spesso sono assalito da ricordi del passato, dal rimpianto di ciò che fu. Un giorno che mi trovavo, dopo tantissimi anni, al mio paese nativo, osservando le case da me ben conosciute, parcheggiai davanti al CRAL, costruito dov’era la casa dove sono nato e cresciuto e distrutta dalla guerra: rividi i vecchi compagni di giochi, le lunghe, così mi sembrava, passeggiate che facevo lungo il marciapiedi per andare dalla casa alla fontana pubblica all’angolo della casa del Bucchianeri. Scesi e volli rifare quel percorso. Con mia grande sorpresa dopo pochi passi mi ritrovai davanti alla fontana: era sta sostituita, non c’era più quella di ghisa con il beccuccio a forma di leone, ma una scipita fonte in muratura. Capii che tutto ciò che credevo allora più grande era dovuto alla mia piccola statura di allora. Tutto era ingigantito, come erano ingigantiti i ricordi: allora chiusi gli occhi e ritornai al passato, alle vecchie usanze,  alle vecchie botteghe artigianali, ai negozi oscuri dove andavo a comperare di trafugo il semi salati. Rividi momento per momento il lavoro che faceva il nonno, le operazioni dei falegnami da cui nascevano come miracolo dei magnifici mobili, il mastro carradore con la sua ascia, il maniscalco mentre ferrava i cavalli, i grossi navicelli nel Fosso carichi di laterizi da portare al porto di Livorno, la strada ancora sterrata percorsa da barrocci stracarichi e tante avventure e giochi avute con i miei compagni di allora. Ho avuto come una vertigine a questi ricordi: il rimpianto mi ha fatto venire un groppo in gola. In quel momento decisi di mettere nero su bianco tutto quello che potevo ricordare e lo ho intitolato “Bè mì tempi”.

 

Ne riporto alcuni brani e se avete la voglia di leggerli, scusatemi per l’entusiasmo infantile che vi trovate.
 

 
 
 
 
 
 
Una delle tante caratteristiche di nonno Guglielmo

Bé mì tempi!: anche per nonno ho dei bei ricordi.
Era un uomo voglioso di comunicare agli altri ciò che sapeva in modo che anche loro avessero un po’ di cultura: ricordo le serate d’inverno a “veglia” attorno al fuoco scoppiettante del “camino”, assieme ai suoi amici, mentre le donne arrostivano le castagne o facevano i “necci” con le piastre calde al punto giusto, con “le monachine che corrono”, per versarci l’impasto e unirle mettendole sulla fiamma per cuocere i castagnaccini: per azzittire noi bambini riempivano di farina dolce i ditali da cucire e li facevano cuocere nella brusta. In questo clima di sereno raccoglimento, sfoggiava la sua conoscenza e leggeva, con relativo commento, i testi classici dell’Ariosto o del Tasso, senza contare i canti della Divina Commedia, specie dell’Inferno. E sceglieva le stanze giuste dell’Orlando Furioso o della Gerusalemme Liberata per dare un filo logico e continuo delle particolari vicende narrate. La difficoltà di questo lo scoprii più tardi quando dovetti studiare al Liceo tali testi. E che dire degli struggenti episodi tratti dall’inferno? Vedi Paolo e Francesca ed il più apprezzato, la vicenda del conte Ugolino?: tali storie non finivano quella sera, ma c’era il continuo alla sera successiva: per chi non conosceva il fatto c’era la fantasia che lo portava a fantasticarci sopra dando i propri finali. Le telenovele ed i serial non sono un’invenzione dei nostri tempi, già allora venivano usate nelle fredde serate invernali: nei periodi estivi invece erano i cantastorie, aiutati da cartelloni illustrati, a romanzare i fatti di cronaca nera del momento: con una differenza, alla televisione sei solo tu con lo schermo che ti domina, mentre allora il fatto avvinceva un gruppo di persone attente e partecipanti con domande e commenti al punto di falsare la vera storia per dargli un qualche cosa di personale frutto di un volo di fantasia. Bé mì tempi! Allora l’uomo aveva uno spirito umano e viveva con l’uomo e per l’uomo ed aveva delle opinioni proprie e non suggerite mai mass media ed aveva il coraggio di esternarle

Quello che accadeva il Sabato Santo

Bè mì tempi a Pasqua! Il Giovedì Santo si “legavano le campane” e dal campanile non veniva il loro suono ad annunciare il mezzogiorno, l’Avemaria o l’inizio delle funzioni ecc. Il parroco allora sguinzagliava noi ragazzi con la “raganella” per avvisare i fedeli. La raganella era un marchingegno formato da una scatola di legno che faceva da contenitore e cassa armonica; dentro una lamina elastica a contatto con una ruota dentata su di un asse al cui esterno c’era una specie di manovella: tenevamo il manico e facevamo girare la scatola, la ruota dentata faceva scattare la lamina che vibrava facendo un rumore sgradevole e gracchiante come le rane. Il Venerdì santo era dedicato al Sacro Sepolcro: l’altare della cappella laterale, con sopra il Crocifisso nascosto da un panno viola, veniva letteralmente sepolto da una montagna di piante in vaso: ciò che dominavano erano le calle che Olimpia aveva curato per tutto l’anno: non devo dimenticare le “vecce”, piante di graminacee fatte crescere in ambiente privo di luce; erano di un colore bianco latte che a contrasto del verde delle altre piante davano una sensazione di meraviglia che ti commuoveva. Alle dodici precise il parroco apriva le porte della chiesa ed era un viavai di persone per pregare davanti alla tomba del Cristo: tutte le mamme conducevano i figli, più o meno grandi, vestiti con gli abiti migliori. Al pomeriggio, con tutti gli amici in allegra compagnia, andavi a visitare le “Sette Chiese”: era un pellegrinaggio alle chiese dei paesi viciniori e non mancavano le critiche nel giudicare quale fosse il miglior Sepolcro. Il Sabato Santo, alle dodici precise si “scioglievano le campane” ed iniziava un “doppio” festoso e prolungato accompagnato dagli spari dei cacciatori che scaricavano le loro doppiette perché portava fortuna per la caccia futura ed i botti fatti da noi ragazzi con le pasticche di potassa e zolfo. Le giovavi madri facevano attraversare la strada ai piccoli figli, perché portava bene ed avrebbero imparato presto a camminare e sarebbero cresciuti robusti e forti: era uno spettacolo di gioia. Ho accennato ai botti che facevamo noi ragazzi più o meno grandi: si usavano le pasticche di clorato di potassio, tremendamente amare, adoperate per alleviare il dolore che accompagna le tonsilliti e le faringiti. Venivano vendute alla rivendita di tabacchi, a Fornacette dalle “Fabbrini”, ma non a noi ragazzi, quindi eravamo obbligati a trafugarle ai nostri genitori; per lo zolfo ci pensava Piero del Dell’Unto, che lo prendeva dal “cigliere”, veniva adoperato per disinfettare le viti,  della sua casa colonica. Si triturava finemente la potassa, si mescolava con lo zolfo, si metteva su di una pietra levigata e sopra si posava una “ciastrella” di marmo: col calcagno gli davamo un forte colpo facendo scivolare leggermente il piede ed il risultato era un forte botto: lo spostamento ti faceva restare il piede intorpidito per parecchio tempo (credetemi che non è semplice né facile e comporta un certo pericolo). L’intensità del botto dipendeva dalla quantità della polvere; una volta mescolammo dieci pasticche e tanto zolfo, trovammo una grossa piastrella da mettervi sopra e vi gettammo su un grosso masso dall’alto di una colonna lì vicino: fu una botta grossissima e la pietra andò in mille pezzi.

 

La trebbiatura

Che festa! Nell’aia della casa colonica veniva piazzato il trattore, il “Bubba” a testa calda che per farlo partire dovevi riscaldarne la testata del motore, una prominenza sferoidale, con una fiaccola a petrolio: ad una certa distanza la trebbiatrice, unita da una cinghia alla ruota motrice del trattore disposta lateralmente: dietro la trebbiatrice una lunga scala, su cui scorreva una cinghia dentata per trasportare la paglia. Le manne del grano, giacenti nei campi, venivano caricate sui carri agricoli trainati da mucche legate al giogo fermato al timone, e trasportate sull’aia di fianco alla trebbiatrice dove si fermava il carro: il contadino, in piedi sul carico, con una lunga forca infilava e porgeva le singole manne ad un compagno, accovacciato sulla trebbiatrice vicino alla “tramoggia”, che provvedeva ad infilarle dentro dalla parte delle spighe: queste venivano prese dagli ingranaggi e ben sbattute; da una parte sortiva il grano, e da un’altra bocchetta  la “pula”, il guscio del grano: dal di dietro usciva la paglia che, agganciata dalla scala mobile, veniva trasportata e lasciata cadere attorno ad un palo impiantato a terra, “lo stollo”: con le forche veniva ben aggiustata a formare il “pagliaio”, una grossa cupola di paglia che durante l’anno sarebbe servita per formare il letto della stalla dove venivano tenute le mucche sia per latte che per lavoro. Sento ancora i canti, le grida di incitamento, l’allegra agitazione, il rumore del trattore, il viavai dei carri, le voci degli addetti alle “bocchette”, da cui usciva il grano raccolto nei sacchi, che ne annunciavano la quantità misurato in “staia”, e la polvere della pula che sapeva di terra e frumento. Tutti i contadini della zona erano clienti di nonno, sia come barbiere che come sarto, per questo mi invitavano volentieri, anche perché ero ubbidiente e rispettoso. Per mio desiderio mi tenevano sul carro, e avevo imparato a guidare le vacche: mi sembrava di essere una persona importante e che senza di me non avrebbero potuto trebbiare. Bè mi tempi! Proprio: ricordo i sapori genuini; appena arrivati la massaia ci accoglieva per una colazione a base di buon pane casalingo fresco con una fetta spessa di “carnesecca” o pancetta. Tenevo il “tocco” di pane con la sinistra, sopra ci posavo la carnesecca e col coltello nella destra, tagliavo sia la carne che un pezzetto di pane: mettevi il tutto in bocca con grande soddisfazione, e masticando, parlavo con i braccianti che mi chiedevano cosa facevo, della scuola, dei miei genitori: che orgoglio! Mi sembrava di essere importante: sarà stata la fame, la novità, l’aria pura della campagna, l’età, ma da allora tale appagamento non lo ho più provato.
A pranzo cominciavi con la zuppa di pane col cavolo alla toscana, baccalà o stoccafisso in umido, pane croccante, buon vino fatto dal contadino, e la frutta appena colta dagli alberi nei campi. A cena immancabilmente c’era il “papero” in umido, con abbondante salsa dove intingevi i bocconi del pane: dopo prosciutto, fatto in casa con maiali allevati dal contadino con avanzi di casa, tagliato a fette spesse, come diceva mio padre, “col falcino”. Durante il pasto era un continuo incrociarsi di domande e risposte fra i contadini, si aggiornavano sull’andamento dei raccolti, del mercato delle bestie, le previsioni del futuro e l’augurio di una stagione propizia.

Oggi quando vedo nei campi quelle enormi mietitrebbiatrici che fanno tutto in una sola operazione escludendo il fattore uomo, vengo preso dalla nostalgia e penso a quanto abbiano perso i giovani di oggi, in esperienza, appagamento, gratificazione e rapporti umani ed è allora che mi sfugge spontaneamente un -: Bè mi tempi!-

 

 

Come si divertivano i "grandi"

Gli adulti avevano si i loro problemi, anche gravi, ma riuscivano nonostante tutto a distrarsi; ricordo le interminabili partire a carte, briscola, scopa, tressette, quadrigliati che facevano gli adulti al bar nel tempo libero, da “Gigino” o da “Beppino”, dove andavo io, dato che era il bar frequentato da mio nonno e mio padre: loro giocavano raramente, ma io stavo incantato a vedere giocare gli altri per imparare ed emulare, e dopo aver capito il procedimento cercavo di intuire gli errori dei vari giocatori. Era l’usanza “giocare il Fiasco”: c’era in palio un fiasco da due litri del buon vino rosso del Chianti, genuino, diceva Beppino, anche se io ho sempre avuto dei dubbi in proposito dato che il suddetto Beppino era chiamato comunemente “Tagliavini”. Se lo scolavano lentamente in sei giocatori, tre coppie, due giocavano e una “riposava” in attesa di sostituire la coppia vincente della partita in atto: il gioco si protraeva per ore, dall’immediato dopopranzo fino all’ora di cena, alternando la briscola, alle prime due vittorie, con scopa a nove punti. Quando arrivavano in fondo non è che vi fossero dei vincitori in assoluti, ed il fiasco veniva pagato grossomodo da tutti quanti. Ad altri tavoli c’era chi giocava a tressette con l’accuso, secondo me il gioco più bello, o a quadrigliati con la “chiamata” di un tre, in genere, e la possibilità di “puntare” le carte per indicare allo sconosciuto compagno occasionale i giochi che aveva in mano: i “busso”, “striscio”, “busso e striscio”, “striscio fino al busso” erano le parole più comuni: dopo lo “sfoglio” le recriminazioni -:cor ventotto terzo devevi puntà l’asso mia buassà di tre! Ma chi t’ha ‘nsegnato a gioà, popò di brodo!:-. -: meglio te che m’ài bussato sur regio vinto! Hai ma andà gioà alle figurine cò bimbetti:- Il divertimento avveniva proprio con questi battibecchi. Sono giochi belli ed impegnativi, magari grossolani, ma veramente maschi, non come i giochi da salotto praticati nei ceti più alti. Quando giocava mio nonno, un mezzo bicchiere di buon vino ci scappava anche per me. Mio padre quando lo sapeva brontolava, ma nonno Guglielmo era possibilista, diceva che un po’ di vino buono faceva bene anche “a bimbetti”. Fra tutti i giocatori vi erano i più bravi e anche i più fortunati: il Nini, il Bimbone, il Martinelli, Uccio ecc. A questo proposito, il Martinelli che era strabico, continuamente stuzzicava Uccio a proposito della sua notoria tirchieria. Una volta il Martinelli:- quando tù mà fa la fanfara (spezzatino di lesso con le patate in umido), pè trovà ‘n pezzetto di cicciati ti ci vòle ‘r cane da caccia!-: disse ad Uccio  :- E a te a vedè mangià ‘r pane ‘n mano all’artri, ti c’è venuto l’occhio torto:- fu la pronta risposta. Era un continuo di tali battute tra un bicchiere e l’altro, e nessuno si offendeva, anzi ci ridevano: e così passavano la domenica.

Dietro Beppino c’era il pallottolaio ricavato sul terrapieno e ricoperto da un pergolato di glicine: era qui che d’estate giocavano a “Bocce”. Interessante era assistere alle sfide tra il Nini ed il Bimbone! Prima di tirare la boccia dichiaravano se andare ai punti o bocciare, indicando dove si sarebbero fermate le singole bocce: è una cosa veramente difficile ma nel 95% dei casi le previsioni erano esatte: su questo particolare fra gli spettatori fioccavano scommesse in denaro, anche forti (Ho visto scommettere cento lire, a quei tempi era una cifra, tra uno di Pisa ed un cascinese). Il gioco era bello ed interessante e noi bambini eravamo sempre attorno, magari dando noia agli adulti i quali ci spedivano a son di scappellotti, ma noi imperterriti ritornavamo alla carica.

 

 

L'utilità del Fosso Emissario

Il fosso era molto utile per Fornacette: era una importante via di trasporto idrica che univa la zona del pontaderese al porto di Livorno. Vi navigavano i “navicelli”, grosse chiatte prive di motore che venivano caricate con materiali laterizi prodotti dalle fornaci della zona ed il vino infiascato proveniente dalle colline di Pontedera; oltre a questo portavano qualsiasi altro materiale, dai manufatti ai rottami metallici per le acciaierie di Piombino. A Fornacette c’era il porto dove scaricavano e caricavano la merce trasportata con i barrocci trainati dai cavalli: erano molti i barrocciai del posto i quali tenevano moltissimo alle loro bestie e le nutrivano, oltre che con semola ed avena, contenuta in un sacco di iuta legato alla testa in cui era tuffato il muso del cavallo, con erba fresca e gramigna. Di qui la necessità delle “erbaiole” che andavano a raccogliere erba in “piaggia” o nella vicina “curigliana” con o senza il permesso dei contadini: però oltre a fare un interesse proprio, erano utili alla campagna perché tenevano pulite le fosse di scarico e durante le piogge l’acqua poteva scorrere liberamente; avevano il brutto vizio di “cogliere” anche l’erba medica dagli erbai dei contadini, e per questo molte volte le scacciavano malamente. Era venuta una industria redditizia ed ho conosciuto famiglie che vivevano con questo reddito.

I navicelli non avevano motore o vele, ma navigavano trainati da funi tirate lungo i lati del fosso, le banchine, da uomini robusti che a piedi arrivavano fino a Livorno e viceversa: si diceva “tirare ad ARSAIO”. Quando si fermavano per riposare o mangiare o dormire, salivano sul navicello dove a poppa c’era una piccola tettoia attrezzata come una piccola casa: certo il mangiare era semplice, il piatto più comune erano fagioli lessati ed insaporiti versati su delle fette di pane abbrustolite e condite con oli di oliva: era piatto unico veramente squisito che anche oggi non disdegno di mangiare ed era detto “zuppa di fagioli alla navicellaia”, oppure condivano la pasta cotta e scolata con un sugo fatto di cime di rape sbollentate con aglio, olio, peperoncino e filetti di aringa triturati finemente: mi viene l’acquolina in bocca al solo rammentarlo!

Il fosso era fonte di guadagno anche per la pesca: vi si trovavano “retoni” di pescatori professionisti che andavano a vendere il frutto della pesca per le vie del paese. Ricordo una reina pescata da Begnamino e rivenduta a pezzi, di circa 15 chili.

Sulle banchine del fosso c’erano le “pile”, lavatoi pubblici per poter lavare i panni nelle limpide acque. Era il regno delle lavandaie a pagamento: però erano molte le donne di famiglia che le praticavano per uso personale: mi sembra di vederle ora con i piedi nella vasca ad insaponare, sciacquare e sbattere i panni sul lavatoio in cemento: a volte cantavano ma per lo più sentivi un cicaleccio continuo frutto dei pettegolezzi che si raccontavano a vicenda: se parlavano di un uomo od una donna alla fine risultavano lavati puliti risciacquati e rovesciati più dei panni che avevano alle mani: la loro vita privata non era più un segreto. I pettegolezzi e la maldicenza erano all’ordine del giorno peggio dei giornali, radio e televisione di oggi. Da qui le notizie volavano e quando sentivi qualche notizia piccante :- ma chi te lo ha detto?:- la risposta :- lo dicevano alle pile”.

Si. Bè mi tempi. L’estate si inoltrava, la scuola era finita, la piaggia e la curigliana erano una distesa di oro striato dal verde dei filari di viti: la calda monotonia del giallo era interrotta dalle rosse macchie dei papaveri. Era bello inoltrarsi tra le bionde spighe, cogliere i papaveri dai lunghi steli: giocare a nascondino e vagare con la fantasia immaginando di essere nel cuore della giungla che ti aveva descritto magistralmente il Salgari nei romanzi avventurosi di pirati ed avventurieri, che leggevi di nascosto invece di fare la lezione.

 

Il Trammino detto Strasciapoveri

. La neve veniva spalata solo davanti alle case, e quando gelava, la strada diveniva una lastra scivolosa su cui facevamo il pattinaggio con le scarpe: per noi era anche uno spasso vedere cavalli che scivolavano causa gli zoccoli di ferro, ed il trammino con le ruote motrici che scivolavano sulle verghe ghiacciate nonostante la sabbia spruzzata sui binari: si, c’era la ferrovia a scartamento ridotto, la STEFET, con delle macchine a vapore che trainavano alcuni vagoni colorati di rosso e bianco: era il servizio Pisa Pontedera, detto “strasciapoveri”, che serviva tutto il piano di Pisa con una miriade di fermate. Il “Trammino” aveva delle vaporiere con nomi altisonanti: io ricordo la “Cammilla dell’Ante” la “Galilei”e la “Fibonacci” ecc. Poi arrivarono delle motrici elettriche ad accumulatori. Sembravano la macchina di “Nonna Papera”, la cabina di guida centrale e da ambedue le parti una specie di cassone dove erano alloggiati gli accumulatori: subito dopo vennero le “Littorine”, automotrici a “canfino”, in italiano nafta, che servivano sia come motrice e vagone viaggiante. Si chiamava “littorina” perché sul copriradiatore spiccava un enorme fascio littorio: erano molto veloci e occorrevano dei manovratori abili; il più conosciuto era il Caponi che viaggiava sempre in coppia con “Mode”, il controllore; personaggi che hanno scritto la storia di questo mezzo di trasporto popolare.

 

 

Le Ciliege di Go'

Nella bottega di barbiere vi bazzicavano i tipi più strani; vi potevi trovare non solo i clienti, ma anche gli amici e gli sfaccendati che andavano a chiedere consigli a Guglielmo e passare un’ora nelle varie discussioni sui fatti del momento. Ricordo in particolare due di questi tizi: Gò, un tipo estroverso, ottimo lavoratore, ma non gli dispiaceva lo scherzo e data la penuria di quattrini, non disdegnava saccheggiare gli alberi da frutto di proprietà altrui. Poi il Goghe ( non ricordo i veri nomi, li ho conosciuti col loro soprannome): un tipo taciturno, che come segno di riconoscimento portava l’orecchino  al lobo destro. Si vociferava che fosse stato marinaio e avesse fatto del bene con azioni poco pulite: si era ritirato nella campagna attorno a Fornacette in un piccolo appezzamento di terra che coltivava ad ortaggi e frutta: fin da quando era entrato in bottega si lamentava con mio nonno e con gli altri clienti che durante la notte un mascalzone gli aveva “scaricato” tutti i frutti dal ciliegio marchiano che aveva dietro casa e che era un suo vanto e l’invidia degli altri -: Se lo trovo ni stacco ‘r collo, ni stacco! ve lo dice ‘r Goghe-: gridava.

Quando fu il suo turno si mise sulla poltrona con il lungo accappatoio bianco fermato attorno al collo e allentato dal dito del Goghe perché troppo stretto, colla mano destra sorreggeva la caratteristica bacinella da barbiere, fatta a scodella, con una larga incisione ad arco lungo il bordo in modo da combaciare perfettamente tra il mento ed il pomo d’Adamo, contenente l’acqua in cui il barbiere intingeva il pennello per insaponare la faccia ed avere una rasatura morbida. (Questa bacinella è resa famosa dalla letteratura in quanto fu adottata come elmo da Don Chisciotte della Mancia).

Mio nonno, con larghe falcate del braccio insaponava sapientemente e nel contempo spiegava al Goghe e agli altri clienti in attesa seduti sulle comode poltrone di pelle nera, e fra questi c’era Gò, che il movimento del sole attorno alla terra era solo apparente ma in realtà era la terra che vi girava attorno e spiegava come gli effetti sulla terra fossero i soliti. Ad un certo punto Gò esplose :- ‘un’ è vero niente! È tutta ‘na bugia! Ver che racconti son barzellette, e se ci ‘redi vor dì ch’un capisci nulla. Io lo so di siùro!:- Nonno cercò di spiegarsi meglio e per dare maggior forza alle parole gesticolava col pennello carico di schiuma, smettendo di insaponare: Gò continuava a fare cenni di diniego: anche gli altri avevano capito e davano ragione a mio nonno. Allora Gò si alzò e tutto pieno di susseguo :- Se tanto tanto fusse vero che gl’è la terra a girà, varche vorta ‘r ciliegio der Goghe verrebbe a casa mia e ‘un lo dovrei ’ndà a cercà io-: Il Goghe schizzò su in aria come un fulmine, buttò di qui a là la bacinella bagnando tutto mio nonno, per scagliarsi su Gò che nel frattempo di corsa aveva guadagnato la porta scappando fuori seguito da un Goghe infuriato ed urlante che con quell’accappatoio lungo e bianco che gli scendeva dal collo ondeggiante dal vento per la corsa, la faccia insaponata, l’espressione stravolta ed infuriata, sembrava un fantasma inferocito che inseguiva un’anima dannata. Fu una scena indimenticabile! Tutti fuori bottega a gridare, incitare e ridere. Bé